Raffaele BIGI

 

 

Tra i suoi scritti alcuni scoop

 

 

Touta Marouca e i suoi resti

 

Una domenica di maggio del 1976, dopo alcune segnalazioni dei locali, ho avuto la fortuna di trovare ciò che resta di Touta Marouca.

Dopo tanti anni proverò a descrivere, se la memoria non mi inganna, quell’esperienza ed i luoghi.

Lungo la strada che collega Rapino a Guardiagrele, c’è una diramazione che porta alla località Forcatura.
Poco dopo un paio di chilometri, sulla sinistra, notai alcune attrezzature arrugginite, oggi non più esistenti, utilizzate forse per fare brecciolina e già allora abbandonate.
Di fronte a questa specie di cava c’era una pinetina naturale; mi ci diressi. Andavo senza una meta precisa e così m’incamminai per uno strettissimo sentiero non sempre percettibile che conduceva in basso, là dove arrivava il rumore di un corso d’acqua. Scendendo, la vegetazione si infittiva e il rumore dell’acqua aumentava. Sulla destra notai una grande roccia avvolta da vegetazione. Mi avvicinai e scoprii un’apertura nella roccia, una fessura molto stretta, come una porta adatta per il passaggio di un solo uomo. C’era inoltre uno scalino o qualcosa che dava una simile sensazione e subito bisognava girare quasi ad angolo retto. Inoltratomi in questo passaggio, continuai lungo il sentiero che tornava ad essere in salita e più marcato, con la sensazione di entrare in un luogo particolare. Camminai oltre e poco dopo vidi una cinta di mura megalitiche estesa per oltre mezzo chilometro e, in alcuni tratti, alta anche 4 metri. Il sentiero, dapprima tortuoso, era diventato poi una strada rettilinea larga 3-4 metri che costeggiava le mura. Poco dopo aver superato alcuni terrazzamenti - in uno di questi ricordo che per terra, sul prato, c’erano residui di cocci, tegole simili a quelle odierne, e ogni tanto delle buche rettangolari che mi venne poi spiegato essere state fatte dai tombaroli - mi trovai in una spianata dalla quale era possibile osservare un vasto panorama. Mi trovavo nel centro di una specie di “piattaforma”, molto adatta per i raduni, da cui si diramavano dei percorsi che portavano tutti verso la parte più alta della montagna. Arrivato quasi alla cima notai fondi di antiche capanne ricavate nella roccia, oltre a canalette, con leggera pendenza, create su muretti di roccia che costeggiano le pareti dei fondi e si raccordavano tra di loro confluendo in una specie di catino per la raccolta dell’acqua piovana.

Dal punto più alto della rupe - era forse l’“arx Tarincria”? (ved. p. 173 del mio libro "CHIETI Passato, Presente e...Futuro" edito dalla Casa Editrice Carabba nel 2012) - che si affaccia sul ruscelletto che scorre in basso, intrapresi, letteralmente addossato alla parete rocciosa e a strapiombo alta 70-80 metri, un difficile e pericoloso aggiramento della stessa, durante il quale notai delle specie di incisioni su roccia che somigliavano ad alcune lettere di alfabeto oscoumbro.

Purtroppo non mi fu possibile fotografare le iscrizioni dovendomi appoggiare con le mani alla parete, ma simili immagini sono ancora impresse nella mia mente!

Tornato a Chieti ne parlai con il disegnatore capo della Soprintendenza Archeologica di Chieti, il sig. Benito Di Marco, il quale mi chiese di accompagnarlo sul luogo. La settimana successiva ritornai in quel sito assieme al sig. Di Marco che effettuò un sopralluogo e fece foto e schizzi. In passato avevano avuto modo di vedere e di parlare dei resti di Touta Maruca Teodoro Mommsen che li riporta come Città Danzica, Antonio De Nino che li aveva qualificati come costruzioni pelasgiche e che aveva chiamata tutta la zona Coste delle Prete della Civita, Giovanni Annibaldi che aveva effettuato nella zona scavi; successivamente anche l’antropologo Antonio Maria Radmilli, il quale durante gli scavi effettuati nel 1954 alla Grotta del Colle trovò tracce di presenza dell’uomo del paleolitico, del neolitico e dell’età del bronzo, e Valerio Cianfarani, amico di Radmilli, il quale nel suo scritto Studi in onore di Aristide Calderini e Roberto Paribeni affermava che la zona non l’aveva trovato segnalata nelle carte dell’Istituto Geografico Militare.

In Soprintendenza ci dovrebbero essere ancora gli schizzi e le foto lasciati da Di Marco.

Peccato però che Touta Marouca dia l’idea di essere stata abbandonata a se stessa, quasi dimenticata, come a voler cancellare questa interessante pagina di storia locale.

Una curiosità: il soprintendente Valerio Cianfaranie il prof. Antonio Maria Radmilli sono stati per oltre un anno “maestri”, nei lontani primissimi anni ’60, di quei boy scouts del Gruppo Scout Chieti 1° A.S.C.I. (Associazione Scout Cattolici Italiani) che settimanalmente andavano al Museo Archeologico Nazionale d’Abruzzo di Villa Frigerj per delle “chiacchierate” sull’archeologia locale che i due tenevano. Io ebbi la fortuna di far parte di quei ragazzini.

(Da R. Bigi, CHIETI, passato, presente e ... futuro,  Casa Editrice Rocco Carabba, Lanciano, Ch, 2012). 

Chieti  

 

Monete coniate da Tiate 

 

Carlo VIII nel 1495 concesse a Chieti il privilegio di battere moneta: il “carlino”, ma già precedentemente dal 1459 al 1463 Chieti aveva avuto la sua “monetazione autonoma” con i suoi “bolognini” e “doppi bolognini”; bolognini coniati anche in seguito, nel 1462, quando il vicerè Matteo Capua aveva residenza a Chieti. Nel 1464 ebbe poi la concessione dal Re Ferdinando I d’Aragona del privilegio della zecca, e in quell’occasione coniò denari in mistura: ”il Privilegio Aureo”, moneta della più alta rarità, ad oggi è conosciuta in un unico esemplare.
Da non dimenticare che già in epoca marrucina Teate, in quell’epoca Tiati, aveva battuto, con buona probabilità, monete proprie (vi è infatti l’attribuzione di un obolo in bronzo con scritta osca che risale alla fine della prima metà del III sec. a.C., venduto recentissimamente all’asta come pezzo unico). Ricordiamo infatti che è tuttora esistente tra i numismatici la questione se le monete con la scritta TIATI sono attribuite a Teate Marrucinorum o a Teate Apulum.

Una curiosità: sono stato sempre convinto che Teate, per la sua importanza, per il suo peso politico, avesse coniato moneta propria, ma il mio amico numismatico Alberto D’Andrea, al quale sottoponevo ogni cosa riguardante le monete trovate nel passato a Chieti o credute coniate dalla stessa Teate, annullava sempre le mie speranze. Una volta, però, quando gli mandai degli studi di alcuni studiosi della numismatica del Settecento, mi disse che in quel caso la moneta descritta era di Tiate Marrucinorum.
Così Alberto D’Andrea nel 2007 pubblicò il libro Le monete di Tiati.

(Da R. Bigi, CHIETI, passato, presente e ... futuro,  Casa Editrice Rocco Carabba, Lanciano, Ch, 2012). 

  

 

Probabile derivazione del nome Teate

 

Già altri studiosi, quali Giuseppe Mezzanotte, Alfredo De Tiberiis avevano ipotizzato una spiegazione plausibile circa il significato del nome di Teate.

L'argomento è stato da me affrontato nel libro CHIETI, Passato, Presente e... Futuro, pg.27, edito dalla Casa Editrice Carabba nel lontano 2012 per la stesura del quale ho impiegato ben 9 anni per concepirlo. In seguito, nel 2018 è stato argomento del mio intervento al Convegno del 2018 (organizzato dall'amico dr. Oscar D'Angelo) nel quale ho detto quanto di seguito riportato. 

"I Greci l’avrebbero chiamata Theaté da Theatòs (aggettivo dal dr. D'Amico, tradotto "visibile") - Theaomai (verbo, traduz. vedere) - perché fondata su un’alta collina che scopre all’intorno un estesissimo panorama dal mare ai monti. Giuseppe Mezzanotte, scrittore e poeta la definisce "Città aerea" ad indicare il magnifico panorama che si osserva da più parti del colle; Alfredo de Tiberiis definiva Chieti "la visibile", secondo me con il doppio significato: "visibile" dal basso e che vedeva dall'alto, punto di riferimento. Ma la radice del termine greco Theatòs non è identica a quella di Theatròn (Teatro)? Quindi dalla sua altezza (come dalle tribune di un teatro) Chieti vede ed osserva quello che succede nella cavea, dal mare ai monti.Quindi Chieti è veramente la visibile? Quindi i due termini Theatòs e Theatròn hanno a buon ragione il loro giusto significato?"

 

 

Papa Celestino V e i Templari

 

 É storia: a Lione Pietro da Morrone incontra i Templari, soggiorna per un paio di mesi in una loro Commenda dove abitava il gran maestro dell'Ordine Cavalleresco;  un mese e mezzo prima dell'inizio del Conclave papa Gregorio X riconosce la Congregazione di Pietro. Sembra che a intercedere per il  riconoscimento fossero stati i Templari. Lo stesso Pietro racconta di aver incontrato un cavaliere, un angelo che lo avrebbe protetto. A Collemaggio c'è un affresco ora interdetto al pubblico in cui appare Pietro da Morrone con un angelo, lo stemma e la croce rossa dei Templari. Ma anche nell'oratorio di S. Pellegrino di Bominaco, facente parte assieme alla chiesa di S. Maria Assunta (ancora una volta dedicata a S. Maria dell'Assunta!) del complesso Benedettino, ci sono cavalieri vestiti di bianco con la croce rossa. Ed anche a Fossa nella chiesa di S. Maria ad Cryptas ci sono raffigurazioni di personaggi vestiti con mantello bianco e croce rossa, oltre a san Giorgio e a san Martino.

Considerando dunque tutte queste circostanze e i momenti in cui si verificarono, è da dire che Pietro da Morrone ebbe modo di conoscere i Templari precedentemente al 1274, forse già  quando era nei Benedettini o quando andò a studiare a Roma nel 1238 per diventare prete.

In quel periodo, nel  1274 ,il Re di Francia era Filippo III d'Angiò, l'Ardito. (ardito per l'abilità nei combattimenti a cavallo, non certo per il carattere). Subentrò giovanissimo al padre; era "pilotato" nelle scelte politiche dallo zio Carlo II d'Angiò che, dopo i famosi Vespri Siciliani, aveva grossi interessi di riacquisire la Sicilia ed unificare tutto come regno di Napoli con sede a Napoli. Per raggiungere lo scopo aveva bisogno dell'avallo pontificio, ma il papato allora era vacante. Non appena si sparse la voce che Pietro da Morrone era stato eletto papa, Carlo II d'Angiò da Napoli si precipitò a raggiungere il religioso che si trovava nell'Eremo di S. Onofrio e portarlo a Collemaggio con la sua scorta reale. Per sua scelta Celestino V, si dice, preferì  cavalcare un asino in  segno di umiltà.

A Filippo III successe nel 1285 il figlio Filippo IV Il Bello, lo stesso che aiutò il futuro papa Clemente V a salire sul trono pontificio e questi, per riconoscenza verso il suo protettore che aveva interessi ad avere un papa francese e che fosse riconoscente ai d'Angiò, per portare ricchezza alle scarse casse della Francia, avviò le confische e i processi ai templari. E da dire che ormai i templari si erano riciclati in altri Ordini ed avevano già messo al sicuro i loro segreti e le loro ricchezze.

Mi sono soffermato volutamente anche se a grandi linee, su questi argomenti  per mettere in rilievo i tanti collegamenti che si possono fare  tra Celestino V, la Basilica di Collemaggio e la chiesa della Civitella (Carlo II d'Angiò quale regista delle scelte politiche,economiche e religiose, l'anno di ultimazione dei  lavori, precedente all'elezione a papa, l'intitolazione delle chiese a Santa Maria Assunta, l'esposizione sud-est, la veduta Gran Sasso-Majella/Morrone, la presenza di un affresco della Madonna con il Bambino e  due santi (San Celestino e S. Antonio da una parte e S. Giovanni Battista e S. Antonio dall'altra). A questo proposito notiamo che anche la facciata della Basilica di Manoppello, che racchiude il Volto Santo, ha lo stesso decoro di Collemaggio (croce rossa su fondo bianco, come i mantelli dei templari)… e così discorrendo,  potremmo trovare molti altri segni della presenza dei templari in Abruzzo.

Ricordiamo infine che a Chieti esisteva un'altra chiesetta dei monaci Celestini, era la chiesa dello Spirito Santo, nata molto prima della chiesa della Civitella: essa stava là dove poi è sorta l'attuale chiesa di S. Chiara.

 (Da R. Bigi, "Il Quartiere dlla Civitella Chieti", Chieti, Edizioni Complexity, 2018.

 

 

Il Quartiere San Giovanni a Chieti e i Templari?

 

Il quartiere era dedicato a S. Giovanni dei Cavalieri; c’era la “porta di S. Giovanni” e, in un luogo non del tutto identificato (ma pare tra l’episcopio e l’inizio del nuovo tratto aperto di Corso Marrucino e precisamente nella piccola corte interna di Palazzo Fasoli, con l’ingresso da via dei Germanesi), c’era anche la chiesa di S. Giovanni dei Cavalieri dell’Ordine di Malta, nella quale era stata apposta, dice Ravizza, una lapide funeraria in ricordo di un chietino, un certo Fris. D. Alessandro de Sansone dell’Ordine di S. Gerusalemme, morto nel 1607 all’età di 35 anni.

Due curiosità.

La prima: in Pescara ll Porto di AA.VV., op. cit., si afferma che l’Ordine dei Templari, sorto a Gerusalemme, sulle rovine del Tempio (da cui il nome) nei primi del secolo XII, con lo scopo di difendere i pellegrini e proteggere i luoghi santi, aveva dislocato le sue Precettorie più importanti lungo i porti dell’Adriatico, da dove le loro navi, cariche di pellegrini, di crociati e di rifornimenti, salpavano per la Terra Santa. Ce ne doveva essere uno anche a Pescara. (…) Dopo l’abolizione dell’Ordine, da parte di Papa Clemente V (…), i beni dei Templari passarono ai Cavalieri di Malta o Gerosolimitani (= di Gerusalemme) (…). San Giovanni Battista era il protettore dei Templari, e gli Ospedali intitolati a lui erano di pertinenza
templare.

Da non dimenticare che:

1°) Teate aveva diversi diritti su Pescara, sul fiume e sul porto;

2°) a Teate erano state donate nel 1095 da Roberto di Loritello, fratello di Drogone, denominato Conte dei Conti, le chiese di S. Salvatore e di S. Gerusalemme in Aterno (quest’ultimo tempio, a modello del S. Sepolcro di Gerusalemme, in precedenza aveva subito una trasformazione da sinagoga a chiesa cattolica, come raccontato dall’Ughelli* nella sua Italia Sacra, a seguito di una profanazione ad opera di alcuni ebrei che, nel 1047, conficcarono degli aghi su un’immagine di Gesù Cristo e da questa poi uscì del sangue raccolto in un’ampolla (da L. Di Biase in La grande storia.Pescara-Castellamare dalle origini al XX secolo, Edizioni Tracce, Pescara 2010). In quel tempo a Pescara, come pure a Lanciano, esisteva una comunità di ebrei;

3°) la 1° crociata venne lanciata da Urbano II* nel 1097 dalla cattedrale di Teate. Il re di Francia Filippo IV il Bello, approfittando della riconoscenza che gli doveva il Pontefice Clemente V per la sua elezione a Papa e della debolezza del capo della Chiesa, mosse contro i cavalieri templari una serie di accuse infamanti: sodomia, eresia e idolatria (adorazione di una misteriosa divinità pagana, il Bafometto, che in lingua occitana significa Maometto). Ordinò in contemporanea contro tutte le sedi templari di Francia, l’arresto degli stessi cavalieri crociati, eseguito il 13 ottobre 1307, e la confisca dei loro immensi beni. Nelle carceri e sotto tortura questi ammisero le loro colpe; il re istituì allora non meno di sette commissioni d’inchiesta e tra il 1309 e il 1311 istruì una serie di processi contro i templari di Teate (quando era vescovo Pietro III) e di Penne oltre a quelli di Parigi, Brindisi e Cipro. L’Ordine fu ufficialmente soppresso da Clemente V con la bolla Vox in Excelso del 3 aprile 1312 ed i beni dei templari trasferiti il 2 maggio seguente (bolla Ad providam) ai Cavalieri Ospitalieri. I Cavalieri Ospitalieri naquero come Cavalieri dell’Ordine dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme, conosciuti anche come Cavalieri di Rodi ed in seguito come Cavalieri di Malta. Il primo Ordine fu quello dei canonici del Santo Sepolcro, fondato nel 1099 da Goffredo di Buglione; successivamente si costituirono quello di San Giovanni dell’Ospedale, di Santa Maria di Gerusalemme o dei Teutonici e quello del Tempio.

La seconda: G. Ravizza in Epigrammi, op. cit., p. 25, riporta che esisteva, ma senza dirci dove, una Iscrizione apposta nella Piramide eretta nella Strada Traversa dalla riconoscenza de’ Chietini verso il benefico Protettore della Strada istessa. Il testo della lapide riportato da Ravizza è: IMPERANTE FERDINANDO I PFA IOSEPHO CARACCIOLO S AGAPITI MARCHIONI MARRUCINORUM PROVINCIAE PRAESIDI QUOD PUBLICO AC PRIVATO TEATINORUM AERE COLLA TO VIAM HANC OMNIUM VOTO DIV EXOPTATAM MIRA CELERITATE DESIGNANDAM APERIENDAM STERNENDAM CURAVERIT IIDEM TEATINI CIVES GRATI PP AVAE MDCCCXVIII.

Ma, al di là del valore della lapide, c’è l’altro valore aggiunto dell’esistenza a Chieti di una “Piramide”di cui nessuno ha mai parlato! Perché? E perché la Piramide? Costruita quando e da chi? Cosa vi era contenuta? Eppure, se lo dice Ravizza che era un giudice, c’è da crederci.
Chi sarà mai il benefico Protettore? San Giustino? Qualche esponente politico-ecclestiastico? Qualche famiglia importante per la città? Ferdinando I? S. Giovanni dei Cavalieri dell’Ordine di Malta? O Piramide e protettore hanno qualche altro significato a noi occulto? La piramide è anche un simbolo massonico! A Chieti c’è stata la massoneria? A meno che per piramide non si debba intendere la cuspide del campanile di S. Giustino a forma ottagonale terminante a piramide. Ma a quell'epoca non era stato costruito!

(Da R. Bigi, CHIETI, passato, presente e ... futuro,  Casa Editrice Rocco Carabba, Lanciano, Ch, 2012).

 

 

Una errata traduzione di una lapide ha cambiato la storia di una chiesa

 

ANNIS MILLENIS CENTUM BIS ET OCTUAGENIS

OCTO FUNDATA DOMUS EST TIBI VIRGO BEATA

AGATHA DOTATUR ET AB HOC QUI CARMINA FA TUR

SUM CELA NENSIS RAYNALDUS ET IPSE THETENSIS

PUBLICUS ET CIVIS ET SCRIPTOR CREDITO SIVIS

CUM MARGARITA FIT ET HOC CONSORTE PERITA

SUNT HEC FA CTA DIE DECEMBRIS MENSE LUCIE

QUARTO PONTIFICE NICOLA O FRENA REGENTE

ORBIS SECUNDO CAROLO REGNANTE SECUNDO

IN THETIS ECCLESIA RESIDENTE PRESULE THOMA

QUI PRIMUM LA PIDEM BENEDICTUM FUNDAT IBIDEM

QUISQUIS ES HIS ORA SOCIIS PRO QUALIBET HORA

ANNIS ECCLESIE TRIBUS HUIC POST IMMEDIATE

PRESUL HIC ECCLESIAM CONIUNGIT DATQUE BEATE

CONSILIO SANTO MARIE DE TRIBULIANO

HASQUE MEO SIGNO SOLITO PRO ROBORE SIGNO

 

Zuccarini ha così riportato la traduzione dell’epigrafe richiesta al compianto mons. Alberto Rainaldi, parroco della chiesa di S. Agostino dalla fine degli anni ‘50 agli anni ’70:

 

Nell’anno 1288 fu costruito

questo sacro tempio in tuo onore, o Santa Vergine Agata,

e arricchito di donazione da chi ti eleva inni di lode.

Sono Rainaldo da Celano, cittadino di Chieti,

pubblico funzionario e scrittore.

Accettalo, se ti è gradito, anche da parte di Margherita,

mia defunta consorte.

Questa lapide fu posta nel mese di dicembre

la festa di Santa Lucia

essendo Papa Niccolò V, Re Carlo II, Vescovo di Chieti

Tommaso* che ne benedisse e ne pose
la prima pietra.

Qui, ognuno preghi per tutti i fratelli.

Dopo appena tre anni lo stesso Vescovo,

molto opportunamente, unì e donò a questa chiesa

la chiesa di S. Maria del Tricalle.

Confermo tale atto col mio sigillo.

 

Qualche probabile interpretazione nella traduzione dell’ultimo rigo: S. Maria del Tricalle anziché S. Maria del Trivigliano, traduzione che ha poi indotto altri autori a riportare fedelmente dando tutto per scontato. Sarebbe infatti interessante sapere per quale motivo don Alberto Rainaldi, persona molto dotta, abbia tradotto Marie de Tribuliano in S. Maria del Tricalle, quando in effetti sembrerebbe più facile e logico tradurre in S. Maria di Trivigliano. Una spiegazione potrebbe essere: i più credono che la chiesa di S. Maria del Tricalle sia sorta nel 1317 mentre la lapide in considerazione (terzultimo rigo) parla di 3 anni dopo il 1288, quindi 1291.

Però nel 1303, durante il vescovato di Pietro III (dal 1303 al 1320), la chiesa S. Maria del Tricalle, riportano Cimboli-Spagnesi nel Piano particolareggiato, venne (re)staurata, quindi già esisteva a differenza, forse, della chiesa di S. Maria in S. Pietro. Quindi probabilmente traducendo S. Maria de Tribuliano in S. Maria del Tricalle si intendeva proprio quest’ultima essendo all’epoca, forse, l’unica chiesa esistente del quartiere Trivigliano dedicata a “Maria”. /ved. Il Quartiere Trivigliano a Chieti, op, cit. 2006)

(Da R. Bigi, CHIETI, passato, presente e ... futuro,  Casa Editrice Rocco Carabba, Lanciano, Ch, 2012).

 

 

Lapide dedicata a Matteo da Chieti

 

Una decina di anni (2011) fa portavo una mia amica a visitare Chieti, cosa che faccio sempre quando il mio ospite apprezza questa Città, e mi chiese cosa c'era in quel grande portone accanto alla chiesa di San Francesco al Corso, Approfittai a parlare della chiesa, del suo convento e presi spunto per entrare in quel portone dove una volta ospitava l'Intendenza di Finanza, ma che inizialmente quegli spazi facevano parte del grande convento dei francescani. Mia intenzione era anche per far capire come Chieti utilizzava i vari dislivelli e far comprendere quindi che dalla parte opposta c'era piazza Malta.Mi imbattei con la porta dell'abitazione del custode e sopra c'era una lapide, ma non si vedeva di più sia per la mancanza di luce, sia per lo stato della stessa lapide. Comunque con la mia inseparabile macchina fotografica scattai la foto. Tornato a casa scaricai la foto al computer e con un po' di luminosità, un po' di contrasto venne fuori che quella era la lapide dedicata a Matteo da Chieti. Purtroppo non è ben comprensibile, alcune parti sono rovinate. sarebbe bello poterne dare una giusta interprazione e valorizzazione. Comunque Chieti conserva anche questo gioiello! 

MATTEO da Chieti. – Nacque a Chieti intorno alla metà del XIII secolo; non si conosce la famiglia di provenienza. Non è noto a quale età egli sia entrato a far parte dell’ordine dei minori. Le prime testimonianze su Matteo, ricordato come «lector sacri palatii» e maestro in teologia risalgono al 1280, quando divenne ministro francescano della provincia dell’Umbria, incarico che svolse fino al 19 sett. 1289.

Dopo essere stato ministro provinciale, nell’agosto del 1291 Matteo fu incaricato da Niccolò IV, il primo papa francescano, di un’importante missione nelle terre orientali da compiere insieme con Guglielmo da Chieri, penitenziere apostolico e suo confratello. Matteo dunque si trovò a essere tra i protagonisti di una delle più rilevanti iniziative diplomatico-militari del Papato all’indomani della perdita definitiva di San Giovanni d’Acri e della Terrasanta (maggio 1291); l’iniziativa fu resa possibile anche da una missione inviata nel 1289-90 a Roma dal khān mongolo di Persia Arghun.

Latore di almeno trenta lettere papali, scritte tra il 13 e il 23 agosto 1291, Matteo con Guglielmo doveva prendere la via dell’Oriente con l’obiettivo di stipulare con il khān e le altre potenze dell’Oriente cristiano un’alleanza antimamelucca.

Verso la fine di agosto del 1291 i due francescani iniziarono il loro viaggio che li condusse a Costantinopoli, Trebisonda e da lì in Georgia, Persia e quindi, sulla via del ritorno, a Mossul e in Armenia Minore. Tale iniziativa diplomatico-militare – avviata in parallelo all’allestimento di una crociata che doveva partire dall’Europa occidentale e che contemplava anche la conversione del khān mongolo al cattolicesimo – contribuì alla ripresa di stabili relazioni tra l’Ilkhānato di Persia e la S. Sede, relazioni che furono consolidate con un’ambasceria degli anni 1295-1304 di due frati francescani nei quali non è però possibile ravvisare Guglielmo e Matteo.

Se la missione dei due francescani non conseguì l’obiettivo della conversione del khān Gaikhatu, successore di Arghun (morto il 10 maggio 1291), certamente contribuì a rafforzare quel clima di benevola tolleranza mantenuto dall’Ilkhānato nei confronti dei cristiani in tutti i territori da esso controllati, una tolleranza religiosa consolidata dalle numerose conversioni all’interno della famiglia del khān, in particolare delle regine Uruk-Khatun e Dathani-Khatun, nonché di uno dei figli di Arghun, Oljeitu, battezzato significativamente con il nome di Niccolò.

Niccolò IV chiese espressamente a Matteo e a Guglielmo di redigere una relazione sulle condizioni e sulla vita non solo dei minori operanti in Oriente, ma anche di tutti gli altri religiosi lì residenti; tuttavia, tra le numerose relazioni dei minori sulle spedizioni ad Tartaros, non vi è traccia di testi redatti da Guglielmo o da Matteo.

 Il 7 maggio 1297 Matteo fu nominato da papa Bonifacio VIII inquisitore «in provincia b. Francisci». In quella data Matteo fu infatti incaricato di perseguire nei montuosi territori dell’Abruzzo, ai confini con la Marca anconetana, gli apostati di diversi ordini e i religiosi non professanti alcuna delle regole approvate. Il papa chiedeva inoltre a Matteo, a cui dava facoltà di avvalersi anche del braccio secolare, di condurre gli eretici direttamente e celermente alla sua presenza: un affidamento, questo, espresso nell’incarico due volte.

 

 

 Lapide/architrave SUM CAPUT ACHILLIS

 

Nel 2002 avevo intenzione di scrivere un libro (che poi ho fatto, dal titolo "CHIETI Passato, presente e ...futuro" edito dalla Casa editrice Rocco Carabba di Lanciano) ed andavo pertanto in giro per la Città con la mia macchina fotografica per immortalare tutto ciò che potesse essermi utile per il lavoro che stavo per intraprendere. Mi trovavo a piazza San Giustino entrai nella sede del Comune e, uno scatto qua uno là, mi imbattei in una ripida e stretta scalinata dando l'idea che si trattasse di un antico convento. La mia attenzione venne richiamata da un blocco scuro su di un arco altrettanto stretto, si trattava di un architrave con apparenti graffi, Lo fotografai! Nel frattempo scendeva le scale un mio amico, dirigente del Comune, al quale chiesi di cosa si trattasse. Mi disse che non lo sapeva, anzi non ci aveva mai fatto caso. Tornai a casa, scaricai la foto al computer, la capovolsi e vidi con estremo piacere che i "graffi" erano lettere. Avevo trovato una iscrizione lapidea in caratteri angioini i cui versi erano SUM CAPUT ACHILLIS... Avevo trovato l'iscrizione che già Lucio Camarra, G. Nicolino, G. Ravizza ne parlavano dicendo che anche che in piazza S.Giustino c'era una colonna di finissimo marmo greco o romano, di squisitissima fattura con sopra una statua a mezzo busto di Achille d alla cui base c'era la lapide il cui testo era 

 

 Sum caput Achillis quondam dominantis in urbe

Thetis, et in villis hominum me publico turbe;
Achillem magnum testatur imago fuisse,

Quem Thetis genuit Troianos edomuisse.

Achillis magni si vis cognoscere vultum,
Quem Thetis genuit, videas hoc marmore sculptum.

 

Traduzione

 

Rappresento la testa di Achille, un tempo dominante nella città
di Chieti e nel territorio circostante;
e che questa sia l’immagine del grande Achille,
figlio di Teti e vincitore dei Troiani,
è attestato dalla pubblica tradizione.
Se vuoi conoscere il volto del grande Achille,
mira lo scolpito in questo marmo.

 

(Da R. Bigi, CHIETI, passato, presente e ... futuro,  Casa Editrice Rocco Carabba, Lanciano, Ch, 2012).

 

  

Cocchia Rocco e Cristoforo Colombo

 

Arcivescovo di Chieti dal 18 dicembre 1887 fino al giorno della morte avvenuta il 19 dicembre 1900. Nato a Cesinali (AV) e morto a Chieti (1830-1900). Il suo nome di battesimo era Antonio. Apparteneva all’Ordine Francescano dei Cappuccini. Viaggiò per molti anni in Europa ma anche in Africa ed in Asia per poter scrivere la Storia sulle missioni dei Cappuccini che gli era stata commissionata. Ricevette anche la nomina di Delegato Apostolico delle repubbliche di Haiti, Venezuela e di S. Domingo, per quest’ultima fu anche Vicario apostolico dell’Archidiocesi.Proprio nella cattedrale di S. Domingo scoprì nel 1877 i veri resti di Cristoforo Colombo e di tale scoperta parlarono i giornali dell’epoca (ved. R. Bigi. I Benedettini in Abruzzo, op. cit.) Mons. Cocchia scrisse a tal proposito tre volumi, di cui uno stampato a Chieti nel 1892 da G. Ricci Cristoforo Colombo e le sue ceneri in occasione del IV centenario della scoperta d’America.

(Da R. Bigi, CHIETI, passato, presente e ... futuro,  Casa Editrice Rocco Carabba, Lanciano, Ch, 2012).

 

 

Quadro nella chiesa di S. Raffaele a Chieti

  

Qualche anno fa entrai nella chiesa di S. Raffaele per fare alcune foto, mi intromisi nella buia sacrestia e vidi in un angolo seminascosto un quadro con una crosta tutta scura tanto che la sua lettura diventava impossibile. Lo fotografai ugualmente. A casa provai a vedere la foto al computer. Illegibile! Giocando con il fotoritocco e aumentando e diminuendo il contrasto e la luminosità ottenni un buon risultato. Appariva un putto che offriva in una specie di piatto una città alla Madonna. Essa veniva ritratta con abito rosso, mantello azzurro e con uno spadino infisso al cuore; la città con tante chiese, cupole, torri e con tratti ancora murati, era quasi tutta dello stesso colore marrone scuro con lievi sfumature tranne un edificio che era colorato di bianco. Osservando meglio, la città risultava essere Chieti, l’edificio bianco era la chiesa con l’annesso convento dell’Addolorata. La Madonna rappresentata era quella dell’Addolorata. L’edificio bianco (chiesa e convento dell’Addolorata) rappresentava qualcosa per il pittore, egli aveva in mente di evidenziare qualcosa. Che cosa dunque? Io penso che voleva si intendesse che il convento e la chiesa erano messi sotto la protezione della Madonna. Probabilmente quell’opera gli era stata commissionata (ved. R. Bigi, Il Quartiere Trivigliano a Chieti,Edicola Editrice Chieti, 2006). (Da R. Bigi, CHIETI, passato, presente e ... futuro,  Casa Editrice Rocco Carabba, Lanciano, Ch, 2012).  

 

 

Le  statue della facciata esterna dell’antico convento di S. Domenico, ora palazzo del Governo.

 

Da ragazzo abitavo lungo corso Marrucino e quando uscivo vedevo sempre le due statue che sono tuttora sulla facciata esterna della chiesa di S. Francesco al Corso. Avevano sempre destato la mia curiosità: ne chiesi a mia nonna che si limitò a dirmi che erano antiche.

Passarono altri anni ed una volta, andando al cimitero con mĥio padre, scorgemmo all’ingresso principale, in un angolo a destra, altre due statue; notammo subito come fossero della medesima fattura, della stessa pietra della Majella e presso a poco della stessa altezza di quelle di S. Francesco al Corso.

Quando ormai ero adulto e mi interessavo delle “cose” di Chieti, trovai nella Biblioteca Provinciale De Meis, in cui ricoprivo l’incarico di Vice Presidente del Sistema Bibliotecario, in una raccolta di vecchie foto, una riproducente l’antica facciata del convento dei Domenicani a Chieti. Era datata 1913, quindi poco prima della demolizione del convento dei domenicani, avvenuta proprio in quell’anno, per edificare l’attuale palazzo del Governo. Ora quella immagine storica del 1913 è quella che vediamo spesso su Facebook.

L’immagine non era nitida, anzi abbastanza sgranata, ma vi si vedevano cinque statue marmoree collocate in altrettante nicchie di cui le due inferiori poste a destra e a sinistra del portone d’ingresso, le due superiori a destra e a sinistra di un grande finestrone centrale vuoto e l’ultima, la quinta, posizionata nel timpano frontale  sopra la porta d’ingresso della chiesa, per un effetto estetico globale non pienamente soddisfacente. Mi resi subito conto dell'importanza della foto, chiesi ed ottenni di farne un duplicato fotografico. 

La scannerizzai in alta risoluzione; un po' di nitidezza, di luminosità e di contrasto ed ottenni un buon risultato finale tanto da identificare le 4 statue e riconoscerle (non trovavo la quinta, quella che poi, dopo pochi anni, casualmene, in una visita all'Istituto del Ss.mo Rosario, alias quello da noi chiamato semplicemente come S.Agata, e il relativo cortile, ritrovai. 

Le 5 statue facevano parte della facciata della vecchia chiesa di S.Domenico, ora palazzo del Governo.

Mi sorprese vedere un cespuglio molto fitto in un angolo, mi avvicinai e muovendo questo cespuglio, uscì una mano. Era quello della statua.

Subito feci mente locale; soddisfatto del ritrovamento l'aggiunsi al mio libro di 'CHIETI, Passato, Presente e ...Futuro, edito dalla Casa Editrice Rocco Csrabba che era ormai quasi da me ultimato.
Ora sono contento che il seme non é andato perso e che quel "cespuglio/nascondino" sia scomparso.
Speriamo che anche questa statua abbia una giusta ed onorevole collocazione.
Qualche anno dopo ne ebbi conferma leggendo la raccolta dei testi di Francesco Verlengia appena data alle stampe, Scritti (1910-1966) (a cura di) Rosanna Caprara, Rivista Abruzzese, Lanciano(Ch) 2007, dove l’autore afferma che le cinque statue in pietra della Majella raffiguranti S. Antonino da Firenze, S. Tommaso d’Aquino (“il santo dottore” ritenuto in parte di origini teatine “… con discendenza per parte materna da un Landolfo di Chieti”), S. Domenico di Guzman, Pio V e la Madonna del Rosario sono state eseguite nel Settecento e provengono tutte dall’ex convento dei Domenicani in Chieti. Verlengia scrive anche che le statue furono trasportate dapprima nel viale del cimitero cittadino, mentre quella raffigurante la Madonna del Rosario fu portata nell’istituto di S. Agata.

Riepilogando, le statue a destra nella foto sono quelle di S. Antonino da Firenze e di S. Tommaso d’Aquino in figura giovanile (è in atto di proteggere Chieti e tiene ai piedi un modellino dell’edificio) e attualmente si trovano sulla facciata della chiesa di S. Francesco al Corso, le statue a sinistra della foto sono quelle di Pio V e di S. Domenico di Guzman collocate dall’allora sindaco di Chieti Nicola Cucullo alla fine del XX secolo sulla scalinata dell’ingresso alla cripta di S. Giustino, ed infine quella raffigurante la Madonna del Rosario si trova nell’istituto S. Agata. 

Un altro interrogativo: S. Antonino era stato - come afferma Meaolo in Venerdì Santo a Chieti, Marino Solfanelli Editore, Chieti 1986 - domenicano, Arcivescovo di Firenze, e sarebbe stato anche nel Convento dei Domenicani di Chieti (attuale palazzo della Prefettura) come priore, dopo essere vissuto da giovane a Chietie la sua statua sovrastava il pozzo allora esistente in piazza Valignani, per ricordarci ancora una volta che a Chieti quella piazza è stata sempre chiamata, sin dal XIV secolo, come riporta G. Nicolino, lu pozze.

A questo punto è forse lecito supporre, se l'indicazione del Meaolo é veritiera, che la statua di S. Antonino sarebbe stata collocata in piazza Valignani subito dopo la demolizione dell’ex convento dei Domenicani e prima del trasferimento della stessa nel viale del cimitero.

Si fa presente che a Chieti, dopo la vittoria della battaglia di Lepanto del 1572, nella quale parteciparono diversi cittadini teatini, si festeggiò l’avvenimento con diverse cerimonie religiose che durarono alcune settimane; alla vittoria venne dedicata una chiesa rurale preesistente, quella della Madonna del Rosario che, da allora, fu chiamata chiesa della Madonna della Vittoria ancora visibile nella contrada omonima, poco dopo la chiesa della Madonna degli Angeli.

In seguito in città nell’antica chiesa di S. Domenico, quella abbattuta, ebbe sede dal 1650 sotto la cura dei padri Domenicani l’arciconfraternita del Ss. Rosario, antica compagnia dei Notai tra le più attive, in passato, della città.

(Da R. Bigi, CHIETI, passato, presente e ... futuro,  Casa Editrice Rocco Carabba, Lanciano, Ch, 2012).

 

  

Cappella incorporata nella chiesa della Ss.ma Trinità e il Triangolo con internamente un grande occhio

 

Papa Gregorio XIII, nel 1580, approvò con Bolla Pontificia la nascita della erigenda chiesa della “Ss.ma Trinità dei Pellegrini”. Dopo una rapida e frettolosa raccolta di fondi tra i fedeli dal 1586/87, la Ss.ma Trinità fu fondata ed eretta, al tempo del camerlengo Horatio Henrici, dai Celestini di S. Maria della Civitella e precisamente dall’arciconfraternita della Ss.ma Trinità dei Pellegrini, dal momento che la chiesa della Civitella non era più sufficiente a contenere i viandanti.

La chiesa fu eretta a ridosso di uno dei due torrioni di Porta S. Andrea che difendevano la cerchia muraria urbana e che ora è incorporato nella chiesa stessa e fu edificata nell’adiacenza o a ridosso di una precedente antica cappella (della quale si aveva notizia già dal 1141) con un "ospedale per i pellegrini". 

Sulla volta della chiesa si osserva infine un affresco che rappresenta la “volta celeste” con putti ed angeli al cui centro appare il triangolo, probabilmente non coevo, con internamente un grande occhio.

 

 

CHIETI - Un particolare che ricorda Chieti 

Esposto in Giappone

 

  In questi giorni in Giappone c'è una grande ed interessante esposizione che accoglie anche l'Italia.

 

Il padiglione italiano, oltre ad avere un'esposizione riguardante una casa futuristica, ma non troppo, di un architetto italiano che l'ha progettato tutta in legno, è per noi interessante per un quadro del Tintoretto che si è reso oltretutto importantissimo: è il ritratto ritrovato di Itō Sukemasu Mancio.

 

Chi è questo Itō Sukemasu Mancio?

 

È uno dei quattro giovani nobili "ambasciatori" giapponesi, parenti di feudatari legati alle missioni che la Compagnia dei Gesuiti di padre Alessandro Valignani di Chieti aveva costituito in Giappone: egli stesso volle che questi 4 giovani, venissero in Italia, a Roma, dal Papa, quale "testimoni" dell'evangelizzazione effettuata dal "gigante teatino" in terra ipponica.

 

La delegazione partì da Nagasaki nel 1582, ed arrivò il 26 giugno 1585 in Italia e in modo particolare a Venezia e ritornò nel 1590 nelle terre d'Oriente.

 

Numerosi fonti attestano che (…) il Senato veneziano aveva dato incarico al Tintoretto di eseguire un ritratto di questi giovani. L'episodio è ricordato anche da Gualtieri nelle Relazioni e dall'abate Ferrante Valignani (…), e autore di una biografia dell'illustre antenato.

 

Il Gualtieri scrive "[de' molti favori, che quella Repubblica (leggasi Venezia) fece a quei Signori, […] per la qual opera si diedero al Pittore due mila scudi" (1586) mentre il Ferrante Valignani aggiunge "Nè contenta quella Signoria di averli così splendidamente onorati, ordinò di più, che fossero ritratti al vivo ne' propri abiti, e fattezze, nella Sala del Gran Consiglio, e ne commise l'opera al Tintoretti, Pittore in que' tempi celebratissimo" (Fondazione CariChieti, 2013).

 

Adriana Boscaro in un saggio del 1965, il primo di una lunga serie dedicata all'ambasceria, cita un documento che è conservato all'Archivio di Stato di Venezia nel quale si fa riferimento ad un sollecito del Senato Veneziano del 1587 rivolto ai pittori "[…] li quali siano tenuti dal sudetto danaro far finir il quadro delli giapponesi già principiato, a conforme a quanto fu deliberato in tal maniera" (1965).

 

Nei primi mesi del 2014, il professore Shigetoshi Osano, ordinario di storia dell'Arte italiana presso l'Università di Tokyo, contattò l'ambasciata per informarci del ritrovamento a Milano, in una collezione privata, del ritratto eseguito da Domenico Tintoretto di uno dei quattro giovani "ambasciatori" giapponesi giunti a Venezia nel 1585.

 

La notizia, arrivata in Giappone per il tramite del prof. Sergio Marinelli, ordinario di storia dell'Arte a Ca' Foscari e autorevolissimo studioso del Tintoretto, confermava quanto risultava dalle cronache del tempo ma che non si era mai potuto accertare.

 

È provato quindi che il quadro è stato eseguito dal Tintoretto e che ritrae il giovane Itō Mancho di Nagasaki (ragazzo di quindici/sedici anni di famiglia nobile guerriera imparentata con Ōtomo) il quale è ritratto in abiti giapponesi.

 

Il quadro è stato esposto per la prima volta nel 2016 al Museo Nazionale di Tokyo.

 

Itō era stato scelto dal Valignani proprio come rappresentante di Ōtomo Sōrin, il potente daimyō della regione Bungo, in quanto il Visitatore teneva a dimostrare alla curia romana che i suoi sforzi portavano buoni risultati, a esibire quindi una prova tangibile dei suoi successi in Asia. Sperava così che quei testimoni oculari, una volta ritornati in Giappone, raccontassero in prima persona delle grandezze dell'Italia, dei suoi artisti e della sua cristianità.

 

Da dieci anni a questa parte si sono creati così gemellaggi tra il comune di Azuchi e quello di Chieti. Recentemente alcuni studenti di Chieti si sono recati a Minamishimabara accompagnati da una delegazione del nostro Comune, contraccambiando le visite ricevute.

 

Quindi il ritratto del Tintoretto è una prova tangibile del personaggio giapponese, figlio dell'imperatore, che ha abbracciato in Giappone la nostra fede, che è venuto in Italia, e che testimonia quindi la grande opera di evangelizzazione effettuata 500 anni circa dal nostro concittadino Padre Alessandro Valignani.

Quanto sopra è un estratto di quanto già pubblicato nel 2019 da Raffaele Bigi su "I Valignani a Chieti. Mille anni di storia".

 

 

CHIETI e l'antica corsa dei Cavalli Berberi            10 maggio 2022

"LU RICCHIAPPE".

 

 "Lu ricchiappe" fa parte di una vecchia tradizione teatina: la corsa di cavalli bèrberi. Essa si svolgeva a Chieti ogni anno nella prima quindicina di maggio, durante i festeggiamenti in onore del santo Patrono S. Giustino, e duravano un mese.

 

I cavalli, senza fantini, partivano da Piazzale S. Anna e terminavano la loro corsa a porta Bocciaia, in piazza S. Giustino, a "lu ricchiappe", che tradotto significa "luogo della ripresa" (dei cavalli)!

 

Per farli correre venivano spronati con una sigaretta.

 

La tradizione vuole che durante una di queste corse i cavalli sfrenati stavano per investire gli spettatori presenti quando l’intervento di S. Giustino, mostratosi sotto forma di nuvola bianca minacciosa, riuscì ad evitare il peggio.

 

Un quadro, riportato in seguito, e esposto nella cripta della cattedrale ricorda l'episodio.

 

Oggi non c'è più la corsa dei cavalli berberi, ma, per non perdere la tradizione, al posto dei cavalli delle diverse contrade, ci saranno coppie di atleti che correranno.

 

Una curiosità: iI termine “Bocciaia” viene da bocciarie (beccherie), macellerie che stavano vicino alla "Porta", appunto "Bocciaia".

 

Il 29 aprile di due anni fa, quindi, è stato presentato a Chieti, il brano "a Lu Ricchiappe" (parole e musica dell'amico Peppino Pezzulo, al quale tutti gli facciamo gli auguri di una rapida ripresa!) eseguito a cori riuniti. I due cori, dell'UNI TRE e della CONFRATERNITA CORALE DELLA CINTURA, sono stati diretti da Fabio D'Orazio.

 

Domani 11 maggio, per conservare simpaticamente la tradizione, si svolgerà il Palio de "Lu ricchiappe" che vedrà come partecipanti i "quarti" (Quartieri) della Città!

 

La "corsa" partirà, come tradizione, dal Piazzale S. Anna.

 

Altra curiosità, non da poco per gli studiosi di storia: la corsa dei cavalli berberi si svolgeva, nel lontano passato, anche a Padova nei giorni dedicati ai festeggiamenti della Santa patrona, Santa Giustina, e a Venezia.

 

Con questo testo è mia intenzione ancora una volta mettere in evidenza come sono sempre esistiti, sin dal XIV-XV sec., i contatti tra la nostra Teate/Chieti e la Serenissima.

 

Infatti questo capoluogo abruzzese, nato 500 anni circa prima di Roma, ha oltre 3200 anni; ha una continuità storica palpabile in ogni angolo. Di ogni periodo storico c'è traccia tangibile!

 

Quindi fino ad un secolo e mezzo circa fa a Chieti si svolgeva a Chieti la corsa dei berberi, ma guarda caso anche a Venezia e Padova. Quante cose in comune!

 

A caso?

 

Il perché lo sappiamo già.

 

Il vescovo Colantonio Valignani, a metà '400, è stato uno degli importanti "apristrada", ma non dimentichiamo che il XV è stato per Chieti un periodo molto florido grazie alle detassazioni che Chieti applicava a chi veniva da fuori, grazie alla guerra Franco/Spagnola e alla paura della peste ormai dilagante in tutta Europa.

 

In città si trasferirono veneti, trentini, lombardi portando molti usi, tradizioni, maestranze e... soldi.

 

A Chieti vennero da Venezia i Venere, gli Humani, gli Henrici, imparentati con i Dandolo (famiglia ricchissima e potentissima di Venezia e che ha dato alla Serenissima ben 4 dogi); i de Tiberiis, i Durini, Frigery dalla Lombardia; gli Obletter dal Trentino, ...

 

Ma l'argomento andrebbe sviluppato e sviscerato a fondo in altri luoghi per conoscere meglio la nostra storia.

 

VEDIAMO COME SI SVOLGEVA LA CORSA DEI BARBERI A PADOVA

 

Molte volte era stata fatta a Padova questa, corsa, ma con più sfarzo fu allestita il 2 luglio 1766. Venne costruito. in Prato della Valle un doppio steccato con palchi nella parte esterna addobbati con gran lusso.

 

La corsa era organizzata da nobili padovani che facevano correre i loro cavalli. Agli animali veniva legata una corda di seta tra la criniera e la coda, e sulla corda legate piume, nastri e palle ed appuntato un numero corrispondente al proprietario.

 

Fino dalle prime ore del pomeriggio vennero occupati i palchi ed il recinto interno, e tutte le finestre e poggioli ornati di tappeti erano affollati di spettatori. Nella Loggia Amulea c'erano le autorità e molti nobili di Venezia venuti qui per l'occasione. A cura di S., E. il Governatore Dolfin venne nella Loggia imbandito un lauto rinfresco. Corazzieri a cavallo custodivano le strade e le musiche suonavano in vari punti del recinto.

 

Davanti al Palazzo Grimani detto Macoppe ora Verson erano preparate 16 caselle con rinchiusi i cavalli che dovevano correre senza fantino. Alle 5 del pomeriggio finito il giro della cavalleria uno squillo di, tromba diede il segnale della partenza ed i 16 cavalli liberi da ogni freno si slanciarono dalle loro nicchie e con un galoppo furioso percorsero tre giri del Prato.

 

II cavallo vincitore che ruppe col petto, il cordone del traguardo fu il numero 10 di proprietà del nobile Cieza. II premio consisteva in 30 braccia, circa 16 metri di velluto di seta. I cavalli furono poi fermati dagli staffieri accorsi e non successe alcun inconveniente.

 

 

CHIETI e il Sacrificio di Ifigenia     8 giugno 2025

 

Due argomenti che sembrano non riguardarsi, eppure...

 

Ieri per caso ho trovato su internet ed ho ritenuto opportuno condividere con voi la copertina di un componimento drammatico del 1822 dal titolo: Il sacrificio di Ifigenia da cantare in Chieti a maggio di ogni anno in ricorrenza della festa del nostro patrono S.Giustino.

 

Oltre all'eccezionalità del ritrovamento, c'è da chiedersi come mai l'anonimo autore abbia scelto l'argomento del mito di Ifigenia da cantare nella città di Chieti. Potrebbe sembrare che i due argomenti non abbiano un filo conduttore, eppure...

 

 

Il sacrificio di Ifigenia è un mito greco molto noto, legato alla guerra di Troia. Ifigenia, figlia di Agamennone e Clitemnestra, fu offerta in sacrificio alla dea Artemide per permettere ai greci di partire per la guerra. Secondo alcuni autori il sacrificio non avvenne perché Artemide sostituì Ifigenia con una cerva, mentre altri raccontano che la dea, dopo il sacrificio, ripristinò Ifigenia alla vita.

 

Elaborazione:

Origine del mito:

Il sacrificio di Ifigenia è narrato in diverse opere, tra cui l'Iliade e l'Odissea di Omero, le tragedie di Eschilo e Euripide, e il poema di Lucrezio "Sulla natura".

 

Motivazioni del sacrificio:

Agamennone aveva ucciso una cerva sacra ad Artemide, e l'indovino Calcante rivelò che per placare l'ira della dea e ottenere venti favorevoli per la partenza delle navi, sarebbe stato necessario sacrificare sua figlia.

 

Il sacrificio (o la sua alternativa):

In alcuni racconti, Ifigenia viene effettivamente sacrificata sul litorale di Aulide, mentre altri raccontano che Artemide la sostituisce con una cerva proprio nel momento in cui Agamennone la sta sacrificando. In entrambi i casi, la partenza per Troia è consentita.

 

Significato del mito:

Il sacrificio di Ifigenia è stato interpretato in vari modi, con alcuni che lo vedono come un atto di crudeltà e altri come un rito di passaggio. Lucrezio, ad esempio, lo utilizza per criticare la religione e la superstizione, che spesso portano a atti di violenza.

 

Influenza sulla cultura:

L'episodio del sacrificio di Ifigenia ha ispirato numerosi autori e artisti, tra cui il poeta romano Lucrezio, nel 1° sec. a.C., che pone questa versione all'inizio del suo poema Sulla natura, ispirato alla filosofia laica e materialistica di Epicuro. Per Lucrezio il sacrificio di Ifigenia è simbolo della crudeltà a cui l'uomo può arrivare nel nome della religione quando essa diventa superstizione e strumento di potere politico, non fede serena e rassicurante.

Il mito influenzò anche numerosi pittori come Giambattista Tiepolo e compositori come Claudio Monteverdi e Christoph Willibald Gluck fino ad arrivare al nostro anonimo  compositore.

 

Perché ispirarsi proprio al mito  legato alla partenza per la guerra di Troia e chiedere di eseguire il componimento ad ogni festività del patrono di Chieti in Cattedrale?

Si può pensare o è solo suggestione supporre che fosse proposito dell'anonimo compositore rafforzare la tradizione che lega la nostra città alla guerra di Troia?

 

Libri antichi di componimenti musicali [da me ritrovati ed inseriti nella "Bibliografia Teatina" (libro realizzato a nome de "Il Cenacolo Teatino" e a firma del sottoscritto assieme ad Angelo Iocco ed a Marino Valentini)] che dicono che sono "da cantarsi" e/o "da suonarsi" in Chieti il giorno del Santo Patrono o in quello del Ss.mo Rosario sono diversi, tra questi:
- Ester ed Assuero. Dramma Sacro 3' da cantarsi in Chieti nella chiesa di S. Domenico Per la solennità di Maria SS. Del Rosario…, Chieti, Tipografia Grandoniana, 1822.
- Mosé sull'Orebbe, Dramma per musica da cantarsi in Chieti per il Santissimo Rosario, 1777.
- Pellicciotti Gian Vincenzo, Sannoner E., Inno sacro alla Vergine SS. del Suffragio da cantarsi nella Chiesa della Trinità de' Pellegrini in Chieti solennizzandosene la festività nei giorni 27, 28 e 29 agosto 1853, Chieti, F. Del Vecchio, 1853.